Curiosità e Tradizioni
del matrimonio ad
Altamura
Il matrimonio ad Altamura
L'innamoramento
Nel passato non era facile per i giovani incontrarsi, conoscersi, amarsi e sposarsi. Bisognava rispettare volontà paternalistiche, chiacchierio della gente, moralità consolidata nel tempo.
Il giovane “adocchiava” la ragazza per strada, quando usciva con la madre o con un’amica, ma avveniva raramente, in genere per far compere oppure alla fontana dove si lavavano gli indumenti, all’uscita dalla Chiesa, dopo la Messa.
Una volta fatta la scelta, il giovane pedinava la ragazza, senza farsene accorgere, per conoscere la sua abitazione. Una volta conosciutala, a sera, dopo il lavoro, cominciava il corteggiamento. Il giovane si fermava all’angolo della strada con lo sguardo rivolto verso la finestra, se la ragazza abitava ad un a piano rialzato, o verso l’uscio, se l’abitazione era a piano terra. Con una espressione dialettale si diceva che il giovane faceva “u spuntnastre”,ossia voleva vedere quando la sua bella spuntava dalla porta o dalla finestra. Questo corteggiamento durava settimane, se non proprio mesi, fintanto che la ragazza, avendo capito, finalmente usciva sola. Era questo il momento giusto ed opportuno per avvicinarla. Il cuore batteva forte! Una volta raggiuntala, le prime parole che il ragazzo balbettava erano:
“Scusi, signorina, è impegnata?”.
La ragazza fingeva di scappare, ma era contenta in cuor suo se il giovane le piaceva. Faceva la ritrosa, ingiuriando l’innamorato e definendolo: “Stupido e cretino”. Poi rallentava il passo, consentendo, così, che il giovane si avvicinasse. Di tutto questo era complice la semioscurità, perché le lampade agli angoli delle strade davano una luce molto fioca e debole. Se la ragazza era impegnata non consentiva l’avvicinamento del giovane, per timore che qualcuno avvertisse il fidanzato. Se la ragazza non era impegnata e il giovane le piaceva, gli faceva capire che gradiva il corteggiamento e gli sussurrava l’ora della sera in cui si sarebbe affacciata al balcone o sull’uscio. La madre della giovane, vedendo tutte le sere questo “spuntnastre”, cominciava a sospettare e a capire. Se il giovane era anche di suo gradimento, dopo aver assunto informazioni tramite commari e commarelle, accettava le bugie della figlia che negava; anzi, per farsi credere, disprezzava il giovane dicendo:
“Ci ne cudde? I manche u conosce! No vide quante iè brutte?”.
La mamma, donna di mondo, per averlo fatto prima di lei, adottando la massima “chi disprezza compra”, dava alla figlia il permesso, sì il permesso - non ridete - di uscire per un brevissimo tempo e rientrare prima “ca se ritirene l’omene”, ossia il padre e i fratelli.
Altri complici di questo corteggiamento ed incontri fugaci erano i traini.
La domanda sorge spontanea: “Cosa c’entravano i traini?”.
Oggi, giorno e notte, sono parcheggiate sulle strade le automobili. Nel passato erano parcheggiati i traini, unici mezzi di locomozione, specie per i contadini. Gli incontri furtivi e veloci avvenivano tra un traino e un altro, con il timore che potesse passare un fratello o il padre della ragazza, i quali ignoravano tutto. Se il giovane era benestante o aveva amici che sapevano suonare strumenti musicali, specialmente il mandolino, poteva permettersi il lusso di portare la serenata alla sua bella. Spesso si accompagnava qualche amico che sapeva cantare qualche strofetta. Eccone una:
“Affaccete alla finestra belle mie, Te voghe disce ciacche stè inde o core mie. Tègne na ferite ranne inde o core, Ca pote uarì schitte u tue amore”.
Le serenate si portavano, nelle notti calde, verso mezzanotte. Nella maggior parte dei casi portatori di serenate erano i barbieri. Un bravo mandolinista, autodidatta, era un barbiere che si chiamava mastro Luca Veccelli, che aveva bottega a piazza Municipio. Era di carattere molto gioviale, nonostante che fosse molto basso e gobbo. Né si offendeva se qualcuno, come porta fortuna, gli carezzava la gobba. La serenata poteva finire bene o, a volte, finire male. Il padre della ragazza, il quale doveva levarsi di buon ora al suono della campana che annunciava la Messa dell’aurora (la Messe de la Chise), verso le ore cinque, aveva bisogno di dormire e mal sopportava la serenata. Allora si levava dal letto - trattenuto inutilmente dalla moglie, che ormai sapeva tutto — e prendeva l’orinale, pieno di un liquido che certamente non era acqua, molto preziosa all’epoca, e versava il contenuto addosso ai suonatori, insultandoli con parolacce:
“Bultrune, sfatiate, scète a fatiè”.
L'apparolamento
L ‘apparolamento non era il fidanzamento, ma costituiva una cerimonia obbligatoria per giungervi. I giovani innamorati, dopo qualche anno nel quale si erano abbastanza conosciuti
“avaine pigghiète u fiète”,
comunicavano ai rispettivi genitori, con molto timore e rispetto, i loro sentimenti. Bisognava, a questo punto, portare l’ambasciata ai genitori della ragazza.
Ambasciatore era, di solito, uno zio dello sposo o un amico intimo di famiglia, il quale si recava nella casa della giovane e diceva che i genitori del ragazzo volevano essere ricevuti per chiedere la mano. La risposta poteva essere positiva
“u uagnaune iè buène, iè figghè di mamma bona e né pièsce”
e, in tal caso, si fissava la data del fidanzamento, brindando con un buon bicchiere di vino. La cerimonia dell’apparolamento era molto intima, vi partecipavano i genitori, i fratelli e sorelle, anche se sposati, dei due giovani. L’incontro tra le due famiglie avveniva in una serata di domenica. L’aspirante fidanzato non entrava nella casa della sua bella insieme ai suoi genitori, ma aspettava fuori. La ragazza fremeva per vedere il suo innamorato fintanto che i genitori dicevano:
“Bè e u uagnaune addau stè, chiamatele. Facite u trasì”
A queste parole era proprio la ragazza che correva sull’uscio e gridava:
“Ciccille, vine, trèse, tutte a poste”.
Da questo momento il giovane poteva frequentare la casa della futura sposa, ma non potevano ancora uscire insieme, se non in compagnia. Né potevano rimanere soli in casa. L’apparolamento, come detto innanzi, non era il fidanzamento. Comunque era finito l’amore clandestino. Nella stessa serata si fissava la data del fidanzamento. La data era soggetta a variare nel tempo, a seguito delle risposte che davano i genitori del giovane alle domande dei futuri consuoceri. La più ricorrente era:
“U uagnaune ha fatte u suldète (il soldato di leva)?”
A risposta positiva i tempi si accorciavano, a negativa si allungavano per il fidanzamento, con questa singolare giustificazione da parte dei genitori della giovane:
“Amme dète la paraule e chèdde iè. Quanne uagnaune vène dai i sullète, se fèsce u fidanzamènte”
La famiglia ospitante offriva qualcosa, fichi secchi, ceci e fave arrostite e qualche tarallo, tutto annaffiato con buon vino.
Il fidanzamento
La festa del fidanzamento era preceduta da un incontro molto riservato tra i genitori dei due giovani. Questo incontro preliminare aveva carattere contrattuale e, quindi, economico e poteva avere ripercussioni sul fidanzamento a celebrarsi prossimamente.
I genitori dichiaravano quali erano i beni che intendevano donare ai figli in occasione delle nozze. Raramente si metteva nero su bianco, sottoscrivendo se i rispettivi padri non erano analfabeti. Altrimenti bastava la parola ed una stretta di mano. I doni o la promessa variava seconda l’attività lavorativa delle due famiglie. In una famiglia contadina il padre prometteva “mule, trame e uarneminte nove” con il godimento di alcuni tomoli di terra.
Se invece il capo famiglia era operaio “artire” si prometteva al figlio il lavoro nella bottega, “la petaie”, con retribuzione. Il padre della giovane prometteva, come minimo, il corredo che poteva essere un po’ misero “panne June” o ricco, “panne dèsce”.
Una volta raggiunto l’accordo si passava alla festa del fidanzamento. La festa si celebrava, di solito, nella serata di sabato, perché seguiva la domenica, giorno di riposo. In questa occasione i genitori del fidanzato offrivano alla futura nuora “u cuncirte” (il concerto), che consisteva in alcuni oggetti-ornamento di oro.
Il concerto era formato da: orecchini, spilla e collana, “un puntandifle”. Quest’ultima era formata da un filo d’oro a maglia molto sottile, con al centro un gioiello lavorato, “u burlocche”. Il tutto chiuso in un astuccio a forma di cuore. Il fidanzato offriva alla promessa sposa un anellino che “si intonava” con il concerto
La cerimonia non era più intima, come quella dell’apparolamento, ma era allargata ai parenti, nonni, zii, cognati e amici dei fidanzati.
La festa si teneva nella casa della giovane.
Se la casa era capiente non si verificava nessun subbuglio, in quanto la cerimonia del fidanzamento si svolgeva in una camera, la quale veniva predisposta per l’occasione. Il subbuglio si verificava quando la casa della fidanzata era composta di uno o due vani.
In tal caso, bisognava smantellare i letti per sistemare le sedie, in maniera ordinata, vicino alla pareti, onde lasciare spazio al centro per far ballare i giovani a suon di grammofono.
La festa cominciava con il ballo (tango, valzer, mazurca). Essendo lo spazio molto ristretto, gli aspiranti ballerini venivano raggruppati in squadre di tre o quattro persone. Il direttore di sala, che nella occasione era un fratello o un cognato della ragazza, orologio alla mano, alternava i gruppi con questi inviti:
“avande la prima cuppie, a poste la prima, avende la seconde”
e così via. I dolci offerti in occasione del fidanzamento, serviti in canestri di vimini, erano taralli e paste secche. Non mancavano fichi secchi, ceci e fave arrostite. Faceva ottima compagnia un buon vino bianco preparato alla vendemmia, in previsione del fidanzamento della “uagnèdde”. La festa si protraeva sin verso mezzanotte. Dopo il fidanzamento il giovane, che già frequentava la casa dei futuri suoceri per l’apparolamento, poteva uscire con la fidanzata la domenica, per andare alla Messa o per una passeggiata a sera. I due promessi sposi non uscivano comunque mai da soli, erano sempre accompagnati dalla madre o da una sorella della ragazza.
Il corredo
Esposizione ed apprezzamento del corredo nuziale
Il corredo era un onere che gravava sulla famiglia della futura sposa. Era, in un certo qual modo, la dote minima che la giovane apportava al matrimonio.
Le motivazioni di questa consuetudine, oggi non del tutto tramontata, erano da ricercarsi nel fatto che la donna, non producendo reddito durante il matrimonio, non faceva gravare sulle spalle del marito, e quindi sul suo reddito giornaliero, l’acquisto di panni ed indumenti necessari per la famiglia.
I vari e diversi capi del corredo erano lavorati a mano con ricami e merletti, a volte opere d’arte di brave ricamatrici. Solo alcuni capi, coperte di seta e di lana, si compravano dai cosiddetti “commessi”, venditori ambulanti che giravano per la città. Tutto il resto era frutto di lavoro manuale. I corredi avevano una classificazione che andava da
“panne iune, panne do, panne tre sino a panne dèsce”.
La prima classificazione, “panne iune”, era delle famiglie povere, mentre “panne dèsce” era delle famiglie ricche. Che significato aveva il numero? Con panni uno si indicava: un letto (due lenzuola, due cuscini), una coperta di lana e una di seta, un copriletto, due asciugamani, una imbottita, una tovaglia e così di seguito.
Se il corredo era ricco ed abbondante, la famiglia premeva perché i parenti, il vicinato ed i futuri invitati allo sposalizio ammirassero la bellezza della roba. Nel giorno stabilito dalle future consuocere, il corredo veniva esposto. Questa esposizione creava nuovo subbuglio nella casa della ragazza. Una camera veniva sgombrata dai mobili ed il corredo era esposto, appeso al muro o poggiato su tavolette predisposte per l’occasione. Il tutto in bell’ordine.
Alle visitatrici la ragazza o la madre spiegava la composizione del corredo, la quantità dei capi e la ricchezza dei ricami. La esposizione durava una settimana: dal lunedì al sabato. Nel sabato pomeriggio, presenti le madri dei promessi sposi, si procedeva all’apprezzamento del corredo. Vi erano delle donne, alquanto anziane ed esperte, le quali sapevano dare il giusto valore ai capi del corredo. Una di queste, invitata, annotava su un foglio il capo e il valore dello stesso. Alla fine, fatta la somma dei valori, la notula veniva sottoscritta dalle due madri e dalla apprezzatrice, se sapevano scrivere. Altrimenti vi apponevano un segno di croce. Un corredo discreto, nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, poteva valere poche migliaia di lire. Il tutto si deponeva in una cassa per essere trasportato, dopo il matrimonio, nella casa degli sposi. In questa serata i genitori della ragazza chiedevano la conferma di che cosa “portava” il fidanzato, già annunciato durante il fidanzamento. Contemporaneamente si fissava la data per il passo successivo,
“pe sci a fè u sine e naune”.
"U sine e naune"
I due fidanzati, tra dolci baci e carezze, si avviano così verso il matrimonio, ma devono affrontare un’altra cerimonia:
“u sine e naune”.
Molti giovani che ancora oggi sentono pronunciare questa frase dialettale, si domandano che cosa fosse, dove si pronunciava, avanti a chi. Oppure molto superficialmente si dirà: “Eh! Ma quante storie per un matrimonio!”, Bisogna precisare che il vincolo matrimoniale, nel passato, era una “cosa seria”. A causa della sua indissolubilità, sia per lo Stato che per la Chiesa, non era più possibile tornare indietro, per cui tutti gli adempimenti che abbiamo visto servivano per meditare bene sul passo che si stava per fare.
Le fasi prematrimoniali che abbiamo visto, innamoramento, apparolamento, fidanzamento, apprezzamento del corredo, avevano carattere privato. Tutto si svolgeva tra i due giovani e le loro famiglie. Di ufficiale non vi era nulla. Le istituzioni, Stato e Chiesa, non erano minimamente intervenute. In prossimità delle nozze bisognava pubblicizzare il futuro matrimonio, renderlo noto a tutta la città, o alle due città, se i fidanzati avevano residenza in Comuni diversi. Sinora i due giovani avevano dichiarato tra loro di volersi bene e di avere il consenso dei genitori. Ma ciò non bastava e ancora oggi non basta. Bisogna fare formale promessa avanti allo Ufficiale di Stato Civile e avanti al Parroco. Ma perché la dizione “sine e naune”?
I nubendi dovevano dichiarare e dichiarano con il Sì di essere intenzionati a contrarre matrimonio. Se, invece, uno dei fidanzati non si presentava, ciò voleva significare No. L’avere fatto il “sine e naune” non implicava che, fino al momento delle nozze, non si potesse ripensarci. Basta ricordare il famoso detto “E’ rumuèse come la zita di Tritte”, a significare come una sposa di Toritto attese inutilmente sull’altare l’arrivo dello sposo. Ma ritirarsi, specie da parte dell’uomo, costituiva una offesa grave per la famiglia della sposa, lavata, a volte, col sangue.
Il Parroco, per tre domeniche consecutive, prima della celebrazione della Messa annunciava:
“Il signore e la signorina si sono rivolti a questo ufficio parrocchiale, dichiarando di volere contrarre matrimonio. Se taluno è a conoscenza di impedimenti canonici è pregato di riferirli al Parroco”.
Nella terza domenica aggiungeva:
“Da questo momento coloro che sanno e non hanno riferito, tacciano”.
Dopo gli annunci parrocchiali, cominciavano i commenti. Che potevano essere favorevoli:
“So do bone figghie”; “Idde iè nu buène fatiataure”; “Pure ièdde iè bona figghie e figghie de mamma bone”; “Avonne fatte l’amore pe tante timbe. I genitore na bulaine. Finalmènte sa vonne capacetète”.
Oppure potevano essere sfavorevoli:
“A capite. Chèdda zuccunèdde tante a fatte ca sé necapelète cudde buène uagnaune. E penzè ca tante figghie de mamma bone stonne a la fenèstre”; “Fortune e.. .viète a ce l’ève”; “Ambèsce nudde, u Signore vède e prevvède”; “U munne è cangiate, vonne nanze i zuccunèdde”.
Nella terza domenica parrocchiale le due famiglie, perché “si ière ditte a la Chise”, pranzavano insieme. Era questo il momento per decidere la data delle nozze, la scelta del compare d’anello e degli invitati e il modo di dividere le spese di “cubleminte”.
Il matrimonio
La celebrazione del matrimonio va descritta sotto un duplice aspetto: l’ufficiale e il privato. Cominciamo con il primo, evidenziando, innanzitutto, che non si celebravano le nozze in alcuni periodi dell’anno. Durante la quaresima, data la pratica dell’astinenza sotto ogni forma, nel mese di novembre, per rispetto verso i defunti, nel mese di maggio, in omaggio alla Vergine Maria. Come anche non si celebravano le nozze in tutti i giorni della settimana. Il lunedì si sposavano “chidde ca se nèrene scennute”, il martedì e il venerdì erano ritenuti giorni infausti (ancora oggi si dice: né di venere né di marte, non si sposa e non si parte), il mercoledì si sposavano i vedovi.
I giorni fausti, quindi, per le nozze erano il giovedì e il sabato. Ma tutti sceglievano il sabato, dato il giorno festivo seguente. Oggi non c’è più “religione” e ci si sposa in tutti i mesi e in tutti i giorni.
Fatta questa precisazione, vediamo come si svolgevano il rito civile e il rito religioso, in quanto prima dell’11 febbraio 1929 e dei Patti Lateranensi ci si sposava due volte. Gli sposi, alla presenza dei testimoni (anticamente detti compari d’anello) sottoscrivono tre originali dell’atto di matrimonio: per il Comune, per la Curia e per la Parrocchia.
E prima del 11 febbraio 1929, cosa avveniva? Stante la rottura dei rapporti tra Papato e Governo italiano, i cattolici si sposavano due volte: al Comune per la legittimità della prole e del coniugio, in Chiesa per non vivere in peccato mortale. Il parroco, secondo le istruzioni avute dalla Curia, invitava i due giovani a sposarsi prima secondo le norme del Diritto civile e poi secondo le norme del Diritto canonico. Il motivo di questo “consiglio imposto” veniva dal timore che, una volta sposati in Chiesa, i coniugi, ormai marito e moglie davanti a Dio, trascurassero di sposarsi secondo il rito civile, con gravi ripercussioni sulla famiglia. La cerimonia al Comune avveniva in modo strettamente riservato. Assistevano i genitori e i compari d’anello, marito e moglie, molto vicini alle due famiglie. Questa cerimonia civile passava, diremmo oggi, sotto silenzio, in quanto non le si dava molta importanza, tanto che i due giovani indossavano sì abiti da festa, ma non abiti nuziali.
Pur essendo marito e moglie, tornavano alle rispettive case paterne; nessuna convivenza fino al matrimonio religioso. Il matrimonio doveva consumarsi dopo il rito religioso. Inequivocabile era l’avviso che dava il compare d’anello allo sposo:
“Ehi, uagnaune ancore te vènene i pupazzère inde a la chèpe. Fatteli passè. La uagnèdde nanze tocche”.
La festa Nuziale
La festa nuziale seguiva il matrimonio celebrato in Chiesa. A quello in Comune, come già ricordato, non si dava importanza alcuna. Al mattino, verso le ore otto, giungeva a casa della sposa la pettinatrice, con una borsa contenente gli attrezzi del mestiere: pettine, forbice, spazzola, ferma capelli e un ferro lungo, a forma di forcina, che, riscaldato, arricciava i capelli. Verso le ore dieci una carrozza veniva inviata alla casa della sarta, per la consegna dell’abito bianco. La carrozza per la sarta era di pragmatica importanza, anche perché l’abito si stendeva sul divanetto per non farlo sgualcire..
Le operazioni per vestire la sposa con l’abito bianco duravano circa due ore. Verso le ore dodici ci si avviava verso la Chiesa. Se la casa era vicina alla parrocchia, il corteo procedeva in questo ordine: sposa e padre, sposo e madre, madre della prima e padre del secondo, compari di anello, parenti ed amici in coppia.
Se gli sposi erano benestanti, la Messa veniva accompagnata dal canto dell’Ave Maria a suon di violino.
La cerimonia religiosa poteva essere punitiva o gioiosa, tutto dipendeva da quello che avevano “combinato o non combinato” i fidanzati.
Se si erano mantenuti casti ed illibati, la sposa indossava l’abito bianco e la cerimonia era secondo l’ordine di Santa Romana Chiesa, con Messa cantata.
Se, invece, i giovani erano scappati di casa (se nèrene scennute) la cerimonia era umiliante e punitiva.
Il matrimonio si celebrava all’alba, in parrocchia. I nubendi ascoltavano la Messa in ginocchio, avanti ad un paniere pieno di paglia, a significare che i giovani si erano resi simili alle bestie. Nessuna festa nuziale seguiva ovviamente il matrimonio.
Scambiati gli anelli, offerti dai compari, sottoscritto l’atto di matrimonio, gli sposi uscivano dalla Chiesa sotto una pioggia di cannellini, piccoli confetti a forma cilindrica con all’interno un filo di cannella. Gli sposi, a bordo della carrozza, unitamente ai compari d’anello, si dirigevano verso la casa dello sposo, preparata per la festa. Una stanza, se abbastanza capiente, o due stanze, erano state precedentemente sgombrate di tutti i mobili. Alle pareti erano addossate due o tre file di sedie per fare accomodare gli invitati. Al centro un piccolo spazio per il ballo.
Se i giovani invitati non erano molti e l’ambiente lo permetteva, il ballo era libero, ma diretto sempre dal compare d’anello, a carico del quale andava anche il compenso per i musicanti. Se i giovani invitati erano molti, il compare formava delle squadre assegnando a ciascuno un numero. Ognuno era libero di scegliersi la ragazza. Dopo circa dieci minuti di ballo, il compare ordinava: “ a posto la prima squadra, avanti la seconda”. Se si accorgeva che i giovanotti sceglievano sempre le stesse fanciulle, lasciando qualcuna un po’ bruttina senza ballo, invitava i danzatori a ballare con le ragazze trascurate. I musicanti erano suonatori di violino, chitarra, mandolino e contrabbasso. Tra un ballo e l’altro si offrivano “i cumpleminte” in canestri di vimini. Si servivano dolciumi: purece (mandorle tritate, impastate con cacao), reginette (bignè coperti di zucchero), fresèdde (taralli) e paste secche. Non mancavano ceci e fave arrostite. Il tutto annaffiato da rosoli fatti in casa e vino bianco. Successivamente si offrì anche un pezzo di pan di spagna e ancora dopo un bucconotto ricoperto di zucchero.
Dopo la seconda guerra mondiale la festa nuziale divenne più sfarzosa e non si svolse più nella casa dello sposo, ma in alcune sale o saloni di case antiche. Contemporaneamente si costruirono due sale per ricevimenti: la sala “Levante” nei pressi dell’Acquedotto e la sala “Quartarella”, dalle parti della Chiesa di Montecalvario.
Anche il Teatro Mercadante, si affittava per sposalizi. Se la festa si protraeva oltre la mezzanotte, si offriva agli invitati un panino farcito di mortadella e provolone (u cugne) accompagnato da vino bianco e birra.
Infine, è bene ricordare alcune consuetudini della festa.
L’abito bianco era offerto dallo sposo, il quale in cambio otteneva una cravatta grigia (u scultine) e l’abito di colore bleu. Il mazzolino di fiori d’arancio era offerto alla sposa dal compare d’anello, ricevendo in cambio una guantiera di dolci. Le spese di “cumpleminte” si dividevano tra le due famiglie in rapporto al numero degli invitati da ciascuna delle parti.
Il giorno dopo
Quelle che state per leggere per stavolta sono tradizioni, ed usi, che mi sono stati riferiti e che sono stati osservati nel periodo a cavallo tra la fine dell’800 e i primi del 900. Il giorno dopo le nozze, infatti, era un giorno vissuto in ansia dai genitori degli sposi e, specialmente, dalla madre dello sposo, la quale voleva accertarsi che il figlio non era stato fatto “fesso”, in considerazione del fatto che il matrimonio era indissolubile. La suocera, con la scusa di portare “na tazze de ciuculète ai ziti frèsche”, si presentava alla casa degli sposi e, mentre i due prendevano il cioccolato, lei armeggiava nel letto, dicendo di voler dare una mano a riassettare le lenzuola e le coperte. In realtà, voleva constatare con i propri occhi quel che era avvenuto durante la prima notte di nozze. Insomma, per dirla in maniera più franca, verificare se le lenzuola erano bagnate di sangue verginale. In caso di “notte bianca”, le ipotesi potevano essere diverse.
I giovani avevano avuto rapporti prematrimoniali senza conseguenze. In tal caso era giunto il momento di confessare “il peccato”, non dichiarato prima nemmeno al parroco, per evitare l’umiliazione di sposarsi in ginocchio avanti ad un paniere pieno di paglia.
Se la suocera trovava la nuora in lacrime, significava che la notte era trascorsa in bianco per fatto addebitabile al marito. In tal caso anche la suocera si scioglieva in lacrime per la disgrazia che era capitata alla sua famiglia. Il fatto non doveva essere palesato a nessuno. La “mascière” avrebbe rimediato all’inconveniente con una serie di intrugli.
La terza ipotesi poteva effettivamente significare che la donna era andata al matrimonio in stato non verginale. In tal caso la suocera trovava al mattino il figlio arrabbiato e furibondo per essere stato fatto “fesso”.
Quali le conseguenze? I napoletani, molto allegramente, risolvevano il caso con una canzone molto nota: “Tè piaciute, tè piaciute, tinatilee cara cara. Sé u mèllone è asciute bianche, nhè che chi ta vuò piglia”. Da noi, invece, il caso poteva avere conseguenze tragiche. Il delitto d’onore, secondo le credenze popolari, riscattava l’onore della famiglia e dello sposo, il quale passava, poi, il resto della sua vita in galera.
Infatti un antico detto si esprimeva così: “U prime anne spusète o malete o carciarète”.
Un’altra tradizione, secondo quanto appreso, voleva che la sposa, prima che la suocera portasse il cioccolato, esponesse alla finestra “la bandiera rossa”, a modo di orgoglio per tacitare le male lingue. Se la notte non era stata “bianca”, a mezzogiorno i consuoceri, i compari d’anello e gli sposi si riunivano per il banchetto.
E il viaggio di nozze? Non esisteva e nessuno ci pensava. Dopo la seconda guerra mondiale cominciò la prima programmazione del viaggio. Destinazione: Bari, per vedere, finalmente, il mare.
Si racconta che una giovane sposa, condotta a Bari, alla esortazione del marito: “Mariètte, u vide u muère” , abbia risposto: “Ciccille ciacche stè dì. Chèdde iè l’acqua”.
Per otto giorno consecutivi la sposa non usciva comunque di casa dopo la prima notte di nozze.
Otto giorni dopo
Un’altra consuetudine molto solida, prevedeva che la sposa per gli otto giorni successivi al matrimonio religioso doveva rimanere chiusa in casa. “La zite scènne ai uètte dì”.
Perché questa strana usanza? Si diceva, che
“la zite se mètte a bregogne” (la sposa si vergogna).
Ma di che cosa si vergognava la sposa?
Occorre considerare, e quindi capire, che in passato si vedeva immoralità anche dove non esisteva. Gli sposi non avevano di che vergognarsi, eppure la donna si vergognava di avere dormito assieme ad un uomo.
Ma quali le origini di questa strana, ed ora ridicola, consuetudine?
“Così è sempre stato”. Nonostante le ricerche, le domande rivolte a donne anziane, nessuna ha saputo spiegare questa strana usanza. La risposta è stata sempre la stessa: “così era”.
Con molto beneficio di inventario, che sia un antico retaggio medioevale che è rimasto radicato negli usi e costumi altamurani sino all’inizio di questo secolo, fino agli anni trenta.
Approfondendo ancora, forse è un antico retaggio della dominazione araba, considerando che, tuttora, la donna araba si copre il volto col velo a dimostrare che si vergogna di esporre il suo viso alla vista di altri uomini che non sono suo marito.
In questi otto giorni di “clausura” la sposa riceveva in casa i parenti, i compari di anello e gli amici che venivano a farle visita, iniziando sempre i colloqui con la frase ancora in uso: “Beh, come stè la zite?” “Bone” rispondeva lei, “Maritene na me fèsce manchè nudde”. Man a mano che trascorrevano gli otto giorni, si affacciava timidamente sull’uscio di casa o si affacciava alla finestra, parlottava con le vicine di casa, preparava il pasto per il marito, dopo aver chiesto, se ne era sprovvista, “na fronze de putrisine o nu spicche d’agghe o na cepodde” alle vicine di casa; faceva, insomma, tutti i servizi per tenere ordinata la nuova casa.
Il marito poteva liberamente uscire - per lui non vi era vergogna - anche perché “te nai da uadagnè la sciurnète” (doveva guadagnarsi la paga giornaliera per comprarsi il pane), anche se si diceva “la megghere iè minze pène”.
Agli otto giorni successivi, ossia la domenica, la coppia, ben agghindata, usciva di casa per fare visita ai compari di anello, andare a messa e pranzare dai genitori dell’uno o dell’altra.
La sera, ormai caduto il muro della vergogna, a braccetto gli sposi facevano la passeggiata per il corso (la chianchète). Si notava subito che i due erano sposi novelli.
Il marito indossava l’abito scuro del matrimonio “cu scultine”.
La moglie un abito alquanto sgargiante con una rosa di stoffa sul petto.
I commenti non mancavano:
“I vite i zite frèsche”, “Stè bone la zite”, “Idde vè tise tise”, “Triminde come se storcene, “Mo tutte bène mi core mi”, “Se ne avonne avvèrte”, “U prim anne a core a core, u seconde a cule a cule, u tèrze a calce necule”.
Se le finanze lo permettevano, gli sposi si fermavano al caffè “Ronchi” per consumare uno spumone (gelato) in estate e “pe renfrerscarse la uocche”, oppure un bucconotto in inverno. In sostituzione, per scarsa finanza, “cicere e semènde da Fonzine”. La vita coniugale trascorreva da questo momento nella normalità per quanto atteneva le relazioni sociali, in attesa della prole.
La figliolanza
La composizione della famiglia era, di solito, tanto numerosa che appare fuori luogo e, quindi inesatto, parlare di figlio o di figli. Il nucleo familiare si aggirava intorno alla media di sei persone (genitori e quattro figli). A volte questa media veniva superata se convivevano i suoceri. Considerato che sino alla seconda guerra mondiale la vita cittadina si svolgeva in massima parte nel centro storico, se ne deve dedurre che in un sottano (piano terra o interrato) vivevano tutte queste persone, unitamente al mulo nella parte retrostante, e alle galline in gabbia. A volte ci scappava anche il maiale. Fatta questa precisazione sull’ambiente familiare, veniamo alla figliolanza.
Il concepimento del primo figlio avveniva molto presto. Dopo pochi giorni dal matrimonio. I nostri antenati non conoscevano e non usavano contraccettivi. I figli erano ricchezza e dono di Dio. Non bisognava rifiutarli. Gli aborti erano rarissimi e spontanei. La donna che abortiva volontariamente e senza necessità, era malvista, quasi odiata, dai parenti e dagli amici. Si diceva:
“chèdde iè na zignere. File nane vole. Ce u muarite ière n’altune negiavaie alliscè u puile”.
Così avveniva che, nello spazio di qualche decennio, si mettevano al mondo quattro o cinque figli. D’estate, con la finestra aperta, si sentiva il chiasso, alquanto vivace, per la distribuzione e l’accaparramento della minestra a mezzogiorno. Scene simili a quella di Totò nel film “Miseria e nobiltà” per appropriarsi di una porzione di spaghetti.
Occorre evidenziare che la mortalità infantile era molto alta, per cui i figli sopravviventi erano quattro o cinque, ma quelli generati raggiungevano la decina. Quando moriva un bambino si diceva che un angelo è salito al cielo. Le campane della parrocchia non davano squilli funerei (i marabunne). Il sagrestano suonava una piccola campana (la cambanèdde) in modo quasi gioioso.
Il corteo funebre era composto da tanti bambini vestiti di bianco. I parenti e gli amici sulla porta della Chiesa, dopo il rito religioso gettavano petali di fiori. In giugno petali di gigli. Il tasso di mortalità diminuì, e quindi cominciarono a diminuire le nascite, con la vaccinazione obbligatoria (i nziti) che si praticava con un taglietto sul braccio sinistro.
Sino a quando i figli non giungevano alla pubertà, l’unica fonte di reddito per la famiglia era il lavoro del padre. Quel che contava era sfamarsi. Bastava una buona provvista di legumi e un sacco di farina e si tirava a campare. Il pane era tutto. Si diceva: “Stè u puène, la chèse iè ricche”. Dopo i dieci anni i bambini erano avviati al lavoro (bottega di calzolaio, barbiere, sellaio, macellaio fabbro, falegname) senza ricevere una lira di paga, ma solo per imparare il mestiere. Il padre diceva al figlio: “Figge mi mebère l’arte e mittele da parte”. I più robusti venivano affidati ad una mastro muratore per impastare la calcina o trasportare tufi o ad un proprietario terriero per pascolare le pecore. A ferragosto - Santa Maria - questi bambini avevano in regalo un paio di scarpe nuove. I ragazzi, stanchi per il duro lavoro, trovavano sollievo solo nel sonno. Di divertimenti, a parte il fatto che non ve ne erano, neanche a parlarne. Gli unici divertimenti erano le feste patronali ad agosto.